All’età di 58 anni è venuto a mancare il giornalista David Carr, colpito da un malore mentre lavorava nel suo ufficio. Dopo aver lavorato per l’”Atlantic” e il “New York Magazine”, era entrato al “New York Times” nel 2002 come giornalista economico e in pochi anni ne era diventato una delle firme di punta soprattutto per gli articoli sui mass media. Nel 2009 si era messo a nudo nel libro “The night of the gun (Simon & Schuster)”, un’autobiografia sulla sua tossicodipendenza e la disintossicazione.
Volto scavato, voce roca, vita sregolata più da rocker che da cronista, era stato una delle figure chiave durante la crisi vissuta dal quotidiano americano nel 2010, in coincidenza del boom del digitale.
Il modo migliore per ricordarlo è forse rileggere i suoi articoli, pubblicati nella rubrica The media equation dedicata all’intersezione tra giornalismo e tecnologia, e la selezione di sue frasi memorabili che il NYT ha pubblicato dopo la sua scomparsa: un concentrato di pragmatismo e ironia, senza concessioni all’ipocrisia o alla retorica.
Nel documentario “Page One” che raccontava un anno di lavoro della redazione del NYT, David Carr si congedava dagli spettatori con questa battuta: “Mi è sempre sembrato pazzesco il fatto di essere finito a lavorare per il New York Times. Non pensavo di essere destinato a essere il migliore uomo di sempre del Times. Semplicemente non volevo mandare tutto all’aria. Sarebbe stato troppo triste relegare quel giornale nelle retrovie, il Times non ha bisogno di essere un monolito per sopravvivere”.
Sicuramente con le sue riflessioni franche e dirette sul giornalismo contemporaneo è riuscito a far onore alla testata che lo ha ospitato negli ultimi tredici anni.